ENRICO MANERA Asmara, 1947
Inganna Enrico Manera con quel bel fare scanzonato, che verrebbe da definire di marca tipicamente italiana. Difficile non tentare di immaginarlo quando giovanissimo frequenta gli atelier di Schifano, Festa, Angeli e tutto un mondo di straordinarie sollecitazioni che lo battezza per l’artista che è destinato a diventare. Inganna perché l’apparenza frivola rivela poi un’insospettabile posatezza ed una determinazione inusuale nell’apertura all’ascolto bilanciata dalla fiducia nella propria sensibilità intuitiva e nella visione del suo percorso di artista. Manera conserva orgogliosamente il segno di quegli anni, nella sua opera, e tiene alto il testimone di quell’esperienza, nella sua storia. Incontrarlo significa avvicinarsi a un tempo in cui la creatività diffusa realizza ciò che già con le prime avanguardie veniva teorizzato come arte/vita. È così che convive con quegli alti spiriti, ribelli e ispirati, indocili e autolesivi, imparando il mestiere dell’arte, mettendo a fuoco materia viva per tradurla poi in propri codici espressivi. A quei suoi maestri-amici dedica un libro di memorie dal titolo esplicito: “Cafè Des Artistes”, prezioso nel suo essere diretto e coinvolgente, ricco di aneddoti e lontanissimo dalla retorica.
ENRICO MANERA Asmara, 1947
Inganna Enrico Manera con quel bel fare scanzonato, che verrebbe da definire di marca tipicamente italiana. Difficile non tentare di immaginarlo quando giovanissimo frequenta gli atelier di Schifano, Festa, Angeli e tutto un mondo di straordinarie sollecitazioni che lo battezza per l’artista che è destinato a diventare. Inganna perché l’apparenza frivola rivela poi un’insospettabile posatezza ed una determinazione inusuale nell’apertura all’ascolto bilanciata dalla fiducia nella propria sensibilità intuitiva e nella visione del suo percorso di artista. Manera conserva orgogliosamente il segno di quegli anni, nella sua opera, e tiene alto il testimone di quell’esperienza, nella sua storia. Incontrarlo significa avvicinarsi a un tempo in cui la creatività diffusa realizza ciò che già con le prime avanguardie veniva teorizzato come arte/vita. È così che convive con quegli alti spiriti, ribelli e ispirati, indocili e autolesivi, imparando il mestiere dell’arte, mettendo a fuoco materia viva per tradurla poi in propri codici espressivi. A quei suoi maestri-amici dedica un libro di memorie dal titolo esplicito: “Cafè Des Artistes”, prezioso nel suo essere diretto e coinvolgente, ricco di aneddoti e lontanissimo dalla retorica. A Roma sono gli anni del Piper Club in cui si sperimentano dinamiche psicosensoriali e psichedeliche, non poco stupefacenti, che si traducono in realizzazioni creative che di lì a poco popoleranno mostre, musei Quadriennali e Biennali d’arte. Sono gli anni che conseguono le beat generation, quando la musica rappresenta un magnetico polo di aggregazione. L’arte è connessa agli eventi musicali con light shows, le proiezioni che assecondano la concitazione ritmica con movimento visivo ed effetti variopinti delle gelatine colorate. Attorno alla musica si sviluppa un prolifico underground che investe il modo di essere, di pensare, di vestire e si sviluppa una controcultura necessaria all’informazione e all’ispirazione artistica. La sperimentazione creativa è debitrice nei confronti della cultura pop, così come di un nuovo linguaggio destrutturato frutto di un sentire on the road che intende estendere la creatività oltre i confini ristretti attuando un’azione rivoluzionaria di democratizzazione. Prende vita un acceso movimento giovanile sensibile alle istanze sociali. Nascono riviste underground che sperimentano nuove forme di comunicazione, come il fumetto che prende nettamente le distanze dai comics perbenisti di stampo disneyano stravolgendo le icone Paperino e Topolino, per asserire il diritto alla libertà di ribellione contro ogni tipo di censura dominante. È in questo clima che si rafforzano le radici dell’artista Enrico Manera. Ma attraverso queste radici Manera si connette e assorbe linfa creativa proveniente anche da un passato più remoto e si nutre del presente che si evolve. Gli stessi artisti della cosiddetta Scuola di Piazza del Popolo sono interpreti attivi dell’esperienza delle avanguardie storiche declinata e rifecondata da rinnovato spirito del tempo. Sono anni del boom (economico) e dello zoom (mediatico) e poi del crack profondo (per molta robaccia che il fiume in piena dell’underground si porta appresso). Manera è allievo e testimone, amico e artista, cresce ed intuisce. Già posizionandosi oltre (anche per distanza generazionale) resta integro e scanzonato affinando un’istintiva propensione alla dissacrazione giocosa, spinta creativa che nel realizzare il ritratto scultoreo di Schifano lo induce ad aprire la grande testa di resina e ottone applicando all’interno un diorama di luci modulato dai suoni e rumori. Rendendo, pertanto, visibili gli effetti speciali di quella mente ricettiva, pulsante e contorta, di grande artista quale era Mario Schifano. Il valore ludico, come per ogni buon gioco, presuppone un sistema di regole decifrabili che attivino il coinvolgimento di chi osserva. Attitudine riconoscibile, ad esempio, in “Chi pensa male Malpensa” non solo per il gioco verbale ma anche per la disposizione degli aeroplanini come fosse un tavolo da gioco. Effetto affine si ha con “Tana”, questa volta con aerei volteggianti in azione da guerra. Qui, come altrove, le armi giocattolo operano uno smistamento temporale dall’età adulta all’infanzia. L’indicatore punta sull’impulsività degli istinti egoici fondati su valori materiali e desiderio di ottenimento immediato, come quelli dei bambini, che se presenti in adulti che determinano le sorti del mondo sottintendono, a contrasto, l’affacciarsi di una mostruosità. La tecnica di sdrammatizzazione – mediante colore, tecniche miste e/o diretti inserimenti verbali – è attiva anche nei numerosi omaggi resi all’eredità culturale (dei grandi maestri dell’arte nella serie EX o rivoluzionai -ismi del ‘900) posti in allineamento paritario con personaggi, temi e icone del mondo contemporaneo, così come lo sono il patinato universo glamour dello star-system con le scottanti questioni sociali, come la sedia elettrica di “Recicle Giordano”. Una complessità resa più interessante ancora, nonché accessibile ed esteticamente invitante, dalla varietà dei materiali. Potremmo, infatti, parlare di una sorta di teatro della rappresentazione artistica allestito mediante una scenografia movimentata, stratificata e moltiplicata da segni, contenuti e materiali vari la cui correlazione, oltre che stupore estetico e poetico, produce nuovo senso. Dopo il reset della frantumazione e dispersione dovuta alla globalizzazione o, se preferiamo, alla tabula rasa che la critica definiva già in molta arte degli anni Sessanta con la comparsa dei vuoti da cui ripartire per la ricostruzione valoriale dell’immagine, Manera attua un reload. Ciò avviene zoomando, circoscrivendo e rigenerando frammenti impoveriti del panorama confusivo globale in una mappatura articolata di luce e colore. Enrico Manera assembla desideri collettivi creando una narrazione visiva che, pur eleggendo a soggetto assodate icone della comunicazione globalizzata, si afferma come forza antagonista all’omologazione. Chi non possiede il senso dell’ironia faticherà a comprendere a pieno l’universo artistico maneriano. È qui che quel piglio scanzonato si fa significante rivelando il polso del maestro, che da forte si rivela sottile e penetrante. Ma accade talvolta, come in “Assente”, che il sorriso si smorzi in un sentimento di amara impotenza. Protagonista il bianco cavallo dello spot Vidal, icona del Carosello anni Settanta, che con la sua luminosa corsa libera con criniere al vento, infonde una forte carica di vitalità. Qui, al posto di un immaginario cavaliere, spicca in verticale la scritta al neon “assente”, alludendo all’attuale incapacità di dominare l’esuberante bellezza della vita. L’assemblaggio ironico resta tuttavia il meccanismo felice che regola gran parte della produzione artistica maneriana sollevandola da un citazionismo retorico. Nella investitura iconografica l’ironia conferisce levità e apre a sentieri percettivi verticalizzanti, nel recupero della profondità storica, che si connettono orizzontalmente e analogicamente all’attualità in una concreta potenzialità narrativa. L’occhio di chi osserva è guidato da una dimensione estetica familiare e al contempo imprevedibile. L’utilizzo di materiale fotografico e di inquadrature filmiche funge da mediatore e collante, rappresentando un media atteso ed efficace assunto dall’immaginario comune. Si palesa una nuova prospettiva mentale la cui profondità è sancita dalla rete. Il linguaggio artistico contemporaneo – essendo la materia e la dimensione spaziale già liberate, con l’informale e il concettuale – sembra privilegiare altre dimensioni di spontaneità, immediatezza cognitiva e improvvisazione. Così la stessa gestualità artistica è fortemente condizionata da media e materiali che alludono a velocità espressiva e supporti visivi determinati dalle nuove tecnologie. - Francesca Barbi Marinetti-
Bacio, 2012
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Batman Teatrino, 1998
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Boccioni Extraterrestre, 2021
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Clark Kent Camminante, 2012
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Coca Cola, 1998
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Diabolik e Eva Kant, 1991
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Diabolik, 1999
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Diabolik, 2011
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Duchamp, 1998
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Ex Da Volpedo, 2002
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Ex Vincent, 2002
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Imperial Nightmare, 1998
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J.C.M. – 1976
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Leonardo, 1986
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M.G.M. – Mayor, 1997
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Metro Goldwyn Mayer, 2002
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Paramount, 1997
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Power, 1978
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Shell, 1987
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Simboli del Cinema, 1982
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Superman Teatrino, 2010
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Twenty Century Fox, 1999
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Warner Bros, 1997
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Warner Bros, 2002